Produttività
Produttività: la possibilità per un qualsiasi procedimento morfologico in una data lingua di essere utilizzato per la costituzione di nuove formazioni (può trattarsi sia di lessemi sia di forme flesse) della lingua in questione. La produttività è una proprietà graduale, e non polare: è possibile dunque l’esistenza di procedimenti morfologici con gradi diversi di produttività.
Contents
- 1 Proprietà del termine
- 2 Esempi
- 3 Discussione
- 4 Sinonimi
- 5 Origine
- 6 Vedi anche
- 7 Riferimenti bibliografici
- 8 Altre lingue
Proprietà del termine
L'aggettivo da cui è derivato il nome produttività è produttivo. Si può dunque parlare, ad esempio, di produttività di un affisso o dire che un affisso è produttivo.
Esempi
In italiano esistono molti suffissi che servono a generare nomi da verbi, tuttavia il loro grado di produttività è molto differenziato. Il suffisso -mento (comportamento, cambiamento, imprigionamento) è altamente produttivo; il suffisso -(t)ura (temperatura, chiusura, incollatura) è tuttora produttivo, ma non ai livelli di -mento. Il suffisso atono '-ita è quasi del tutto improduttivo in italiano moderno: esiste solo una quindicina di forme con questo suffisso (cernita, crescita, mescita, nascita, perdita, rendita, ricrescita, rivendita, rivincita, spendita, svendita, vendita, vincita, cfr. Grossmann e Rainer 2004), e sono attestate pochissime nuove formazioni in tempi recenti: svendita (1950) e televendita (1989), che però è un caso dubbio in quanto potrebbe anche risultare dalla composizione tele- + vendita.
Discussione
Natura polare vs. graduale della produttività
Per svariati decenni, la questione se la produttività sia una proprietà di tipo polare oppure graduale è rimasta aperta. Per la prima prospettiva, è possibile classificare un procedimento morfologico esclusivamente come “produttivo” o “non produttivo”, mentre per la seconda è possibile disporre i procedimenti morfologici lungo un gradiente continuo ai cui estremi sono situate l’improduttività totale e la produttività piena. Quest’ultima spiegazione è in realtà molto più adatta a spiegare i dati linguistici osservabili. Un esempio consiste nel comportamento dei suffissi deverbali italiani -mento (es. cambiamento), -(t)ura (es. asciugatura), '-ita (es. nascita). Il suffisso -mento è particolarmente produttivo nell’italiano moderno: secondo un conteggio degli hapax legomena (elementi la cui frequenza approssima da vicino quella dei neologismi; cfr. la sezione «Misure della produttività») svolto su un corpus costituito dalle annate 1996-1998 della Stampa, ha dato luogo a 402 nuove formazioni in quei tre anni. -(t)ura non è altrettanto produttivo, ma ha comunque dato luogo ad un discreto numero di neologismi (189; cfr. Gaeta e Ricca 2003); '-ita, al contrario, è quasi totalmente improduttivo. Avendo a disposizione solo le due categorie produttivo/improduttivo, non si sa che ruolo assegnare a -(t)ura: sarebbe scorretto equipararlo a '-ita, ma non possiede neppure la vitalità di -mento.
Ancora oggi la questione non si può dire totalmente risolta, ma si può osservare che gli studi più recenti tendono sempre più a prendere le mosse da una nozione graduale di produttività.
Dominio della produttività
Una tendenza piuttosto accentuata degli studi sulla produttività è quella di concentrarsi sui procedimenti di derivazione morfologica, e in particolare sulla suffissazione. Tale tendenza dipende soprattutto da motivazioni di ordine pratico: i suffissi flessivi, ad esempio, sono più difficili da individuare utilizzando i metodi di ricerca testuale disponibili nei corpora elettronici (strumento particolarmente adatto per le ricerche sulla produttività; vedi la sezione «Misure della produttività») e, poiché danno luogo ad un numero più vasto di occorrenze, è più difficile risolvere tutti i casi di incertezza e ambiguità che emergono necessariamente negli studi empirici. I suffissi derivativi sono un oggetto di ricerca molto meno problematico da questo punto di vista. Nonostante la concentrazione degli studi pertinenti sulla derivazione, dunque, è importante sottolineare che il dominio della produttività morfologica è ben più vasto: in principio, la nozione di produttività si può applicare a qualsiasi procedimento morfologico che sia caratterizzato da una certa regolarità all’interno del sistema linguistico in questione. È dunque possibile determinare il grado di produttività dei procedimenti flessivi di una lingua e, all’interno di quelli derivativi, sicuramente della suffissazione, della prefissazione e della composizione. La questione è più dubbia in relazione a procedimenti morfologici come la conversione, la retroformazione e il troncamento e a formazioni costituite per analogia con un lessema preesistente. Dato che nella maggior parte degli studi la produttività viene considerata come un tratto proprio delle regole morfologiche, i procedimenti scarsamente regolari non dovrebbero rientrare nel suo dominio. Tuttavia, le posizioni sulla regolarità dei procedimenti appena citati variano a seconda del punto di vista teorico che viene adottato.
Misure della produttività
Posto che la produttività è un gradiente caratterizzato da vari livelli su cui si dispongono i procedimenti morfologici, è necessario sviluppare un metodo che permetta di quantificarla.
Conteggio dei types
Un primo tentativo in questo campo consiste nel conteggio delle parole formate con un determinato procedimento morfologico, cioè del numero dei tipi (ingl. types), a partire da un vocabolario della lingua in questione. Questa misura in realtà non serve a determinare la produttività attuale di un procedimento. Ne risulta invece (come nota Plag 2003) la produttività passata: ad esempio il suffisso -igia può aver dato luogo, in passato, a molte parole dell’italiano ancora in uso, senza essere attualmente più utilizzabile. Inoltre, questo metodo non funziona nel caso dei procedimenti flessivi.
Metodo di Aronoff
Anshen e Aronoff (1981) utilizzano un metodo per calcolare la produttività basato sulla distinzione tra parole attuali, cioè le parole effettivamente in uso nella lingua, e parole possibili, cioè tutte le parole che, se formate, sarebbero ben formate secondo un determinato procedimento morfologico. Per Aronoff la produttività è rappresentata dal rapporto tra parole attuali e parole possibili: se il rapporto ha un valore numerico alto, cioè le parole attuali sono in maggioranza rispetto a quelle possibili, allora il procedimento è altamente produttivo. Uno svantaggio di questo metodo è che non è chiaro come si calcola con certezza il numero di tutte le parole possibili che derivano da un certo procedimento morfologico. Altri svantaggi derivano da alcune conseguenze matematiche dell’uso di questa formula, che la rendono inadatta nei casi dei procedimenti a produttività molto alta e molto bassa.
Metodo di Baayen
Harald Baayen (cfr. Baayen 1992 e Baayen 2003) ha sviluppato una serie di metodi per la misurazione della produttività basati sull’analisi statistica di corpora linguistici molto ampi. L’idea di base è che la produttività sia anch’essa una nozione statistica, corrispondente alla probabilità che un determinato procedimento morfologico dia luogo ad una nuova formazione all’interno del lessico di una lingua. Gli elementi all’interno di un corpus che hanno la massima probabilità di essere neoformazioni sono le parole che compaiono solo una volta, cioè i cosiddetti hapax legomena. Questo perché è possibile individuare una correlazione tra bassa frequenza di una forma complessa e produttività del procedimento che l’ha generata, argomento che verrà approfondito nella prossima sezione. Il metodo di Baayen più frequentemente citato e utilizzato dagli studiosi della produttività consiste nell’individuare tutte le istanze (tokens) che rappresentano un determinato procedimento morfologico in un corpus, e nel calcolare la probabilità che ognuna di queste istanze ha di essere un hapax. In tal modo si calcola, in sostanza, la probabilità che l’insieme di tutte le forme costituite grazie a un certo procedimento venga ampliato tramite una forma nuova (un nuovo type) — e cioè che il procedimento in questione generi neoformazioni. Questo indice di produttività è stato denominato da Baayen «category-conditioned degree of productivity (grado di produttività condizionato dalla categoria morfologica)»; lo si ottiene calcolando il rapporto tra il numero di hapax di un certo tipo (n1aff) e il numero di tutti i tokens di quel tipo nel corpus (Naff):
Quanto più sarà alta la proporzione di hapax (cioè di neoformazioni) nel campione di tokens considerato, tanto più sarà produttivo il procedimento morfologico che li ha generati. Se invece il procedimento ha dato luogo a molti tipi o a molte istanze, ma a poche neoformazioni, è chiaro che si tratta di un procedimento scarsamente produttivo. Baayen (2003) fornisce, a tal proposito, i dati di uno studio condotto sul British National Corpus [BNC] sui suffissi -ness e -th dell’inglese, rispettivamente molto produttivo e improduttivo. Nel primo caso, man mano che cresce il campione del BNC analizzato, aumentano di pari passo il numero di tipi e di hapax in -ness, senza che sia raggiunto un limite oltre il quale la crescita si ferma; nel secondo caso, al contrario, il tasso di crescita dei tipi e degli hapax in -th raggiunge rapidamente un picco e in seguito si stabilizza su un livello vicino a zero. Queste dinamiche sono tipiche rispettivamente dei procedimenti produttivi e improduttivi, e sono ben rappresentate dalla formula riportata più in alto.
È importante notare che questo procedimento è soltanto uno dei metodi individuati da Baayen, e che secondo l’autore i vari metodi (tra cui anche il conteggio dei tipi generati da una regola morfologica) andrebbero applicati in parallelo, poiché ognuno di essi concorre ad illuminare un aspetto della produttività.
Metodo di Dressler
Benché i procedimenti proposti da Baayen siano ampiamente condivisi, anche grazie alla loro applicabilità pratica, non tutti gli studiosi concordano con la sua definizione probabilistica di produttività. Wolfgang U. Dressler (cfr. Dressler e Ladányi 2000 e Dressler 2003) ha proposto invece una concezione di produttività che prescinde totalmente dal dominio della produzione e dell’uso linguistico, e che rientra esclusivamente nel livello della competenza grammaticale. Secondo questo autore, un procedimento morfologico è altamente produttivo se dà origine a un alto numero di parole grammaticalmente accettabili, cioè a parole possibili; il fatto che queste parole vengano effettivamente coniate e utilizzate dipende da fattori di tipo pragmatico e sociale che non hanno a che fare con la produttività in senso stretto. I types e i tokens effettivamente realizzati in un corpus appartengono al dominio della produzione, non della competenza, e sono solo una parte delle parole possibili di una lingua; calcolare la probabilità che una forma complessa compaia nell’uso linguistico non corrisponde a calcolare la produttività del procedimento che l’ha generata, perché tale probabilità dipende da condizioni che esulano dalla competenza grammaticale (cfr. la sezione «Restrizioni sulla produttività»). Quale metodo per determinare la produttività di un procedimento morfologico, Dressler propone cinque criteri di natura qualitativa disposti in ordine gerarchico, che corrispondono ognuno a un diverso grado di produttività. Dal più alto al più basso:
1. il procedimento morfologico si può applicare a prestiti da altre lingue, che hanno bisogno di un adattamento fonologico per essere inserite nella classe derivazionale in questione;
2. il procedimento si può applicare a prestiti che hanno già caratteristiche fonologiche adeguate;
3. il procedimento si può applicare ad abbreviazioni e acronimi della lingua nativa;
4. le forme complesse generate da un certo procedimento migrano in un’altra classe derivazionale, generata da un procedimento con la stessa semantica, ma più stabile;
5. il procedimento serve alla coniazione di neoformazioni pienamente grammaticali a partire da basi della lingua nativa.
Correlati psicolinguistici
Esiste una serie di studi che hanno cercato di individuare le cause della produttività dei procedimenti morfologici (in particolare di quelli derivazionali) nel modo in cui il cervello elabora l’input linguistico.
Molti di questi studi prendono l’avvio dal fatto che negli studi statistici sulla produttività è stata riscontrata una correlazione tra frequenza e produttività. Baayen 1992, in particolare, ha osservato che i procedimenti morfologici più produttivi sono rappresentati, nei corpora linguistici, da un ampio numero di forme a scarsa frequenza e da un numero piuttosto piccolo di forme con frequenza alta; i procedimenti poco produttivi sono caratterizzati da una distribuzione inversa, cioè molte forme ad alta frequenza e poche forme a bassa frequenza.
È possibile fornire una motivazione per questa distribuzione in termini psicolinguistici, a partire dai modelli del lessico mentale che sono più diffusi oggi. La maggior parte di questi modelli prevede che l’accesso a una parola morfologicamente complessa nel lessico mentale possa avvenire tramite due modalità o “percorsi”: il recupero della forma intera (accesso diretto) o, in alternativa, il recupero delle sue parti componenti (accesso tramite scomposizione morfologica). Si presuppone dunque che il lessico mentale contenga parole intere, ma anche radici lessicali e morfemi legati (ad esempio suffissi e prefissi). A seconda del modello, le due modalità possono essere in competizione diretta tra loro oppure contribuire in parallelo al recupero della forma, ma in tutti i casi resta valido il presupposto che, per ogni occasione di recupero lessicale, un percorso sarà dominante rispetto all’altro. Ogni volta che avviene l’accesso ad una forma, questo ha come conseguenza un rafforzamento della sua rappresentazione nel lessico mentale. Questo rafforzamento in genere viene rappresentato come un innalzamento del livello di attivazione della forma stessa.
Se dunque una forma morfologicamente complessa è molto frequente, cioè l’accesso ad essa avviene molto spesso, la sua rappresentazione come forma intera si rafforza nel lessico mentale. Di conseguenza, il percorso di accesso diretto a quella forma diventa predominante durante l’elaborazione linguistica: in pratica, per accedere a quella forma non è (più) necessario che venga scomposta in morfemi. Questo favorisce, col tempo, una opacizzazione della forma complessa sia dal punto di vista morfofonologico sia dal punto di vista morfosemantico, fino a che (nel caso estremo) non viene più percepita come complessa. Al contrario, una forma poco frequente difficilmente ha una rappresentazione autonoma nel lessico mentale, per cui l’accesso avviene tramite scomposizione morfologica. In questo modo sono i morfemi che la compongono, e in particolare eventuali affissi, ad essere attivati e dunque rafforzati nella mente del parlante, il che contribuisce alla loro produttività. Infatti questo rafforzamento dà loro un vantaggio che entra in gioco durante l'elaborazione di qualsiasi forma complessa costituita con quei morfemi, e rende più probabile in tutti quei casi l'accesso tramite scomposizione.
Esistono vari esperimenti psicolinguistici che supportano questa spiegazione della correlazione tra frequenza e produttività. Tuttavia, Baayen stesso (cfr. Baayen 1992) ha notato che una simile spiegazione, benché sostanzialmente adeguata, non rende pienamente conto dei dati psicolinguistici che la ricerca ha a disposizione. Cito, a titolo di esempio, Burani e Caramazza 1987, dove si documenta che effettivamente la frequenza delle parole complesse ha una correlazione positiva con la rapidità del loro riconoscimento, ma che un altro fattore molto significativo è la frequenza delle basi delle parole complesse.
Hay 2001 argomenta che ad influenzare la trasparenza (e dunque la produttività) di una forma complessa non è la sua frequenza assoluta, bensì la sua frequenza in confronto a quella della base (dunque la sua frequenza relativa). Secondo Hay, questa teoria è in realtà più plausibile in vista dei modelli di accesso al lessico mentale delineati più sopra. Se una forma semplice ha una frequenza bassa, non abbiamo particolari difficoltà a mantenerla in memoria. Ma se abbiamo a che fare con una forma complessa e la sua base è più frequente della forma intera, indipendentemente dalla frequenza assoluta di entrambe, tra le due sarà la rappresentazione della base ad avere un livello di attivazione più alto, e dunque l'accesso tramite scomposizione sarà favorito rispetto all'accesso diretto. Al contrario, se la parola complessa è più frequente della base, anche se entrambe hanno una frequenza assoluta molto bassa, sarà comunque l'accesso diretto ad avere un vantaggio, perché il livello di attivazione della forma intera rimane più alto di quello della base, anche se è basso rispetto ad altre rappresentazioni nel lessico mentale. Un esperimento basato sui giudizi dei parlanti e una ricerca sull'opacità semantica di varie forme complesse confermano la correlazione tra frequenza relativa delle parole complesse e delle loro basi, e produttività delle parole stesse.
Restrizioni sulla produttività
L’applicazione di qualsiasi procedimento morfologico è soggetta sia a restrizioni interne al sistema linguistico (strutturali), sia di tipo extralinguistico. Questo insieme di fattori viene trattato diversamente a seconda dell’impostazione teorica adottata: può essere compreso totalmente o parzialmente nella definizione generale di produttività di un procedimento, oppure può esserne escluso e considerato come attinente a un livello diverso rispetto a quello dove si realizza la produttività (cfr. Dressler e Ladányi 2000).
Restrizioni extralinguistiche
Le restrizioni di tipo extralinguistico sono legate al livello della produzione e dell’uso linguistico. Queste restrizioni condizionano dunque la possibilità e la probabilità che una neoformazione complessa venga effettivamente coniata e che entri nell'uso comune.
- Utilità: affinché un nuovo termine venga coniato è necessario che sia utile per i parlanti. In particolare per quanto riguarda la derivazione, le tre funzioni principali della formazione di neologismi (sintetizzate in Plag 2003) sono la funzione referenziale, cioè la coniazione di un termine per designare un concetto totalmente nuovo, che ha dunque bisogno di una sua etichetta (un esempio è l'espressione bigliettazione automatica, coniata per fare riferimento ai sistemi automatici di vendita e convalida dei biglietti sui trasporti pubblici); la ricategorizzazione sintattica, cioè la coniazione di un termine per esprimere un concetto già esistente in una nuova categoria sintattica (ad es. leggerezza anziché essere leggero); l’espressione di un atteggiamento verso il contenuto della forma linguistica utilizzata (cfr. l’uso dei diminutivi in italiano: «Mamma, hai fatto anche le patate per il mio tesorino?», per esempio, esprime affetto, tenerezza verso il referente).
- Autoevidenza: il concetto espresso dalla nuova formazione deve anch’esso avere una sua utilità. In particolare, se un neologismo esprime uno stato di cose che è autoevidente e dunque non ha bisogno di essere specificato, la sua coniazione viene bloccata. Esempio: uomo barbuto, uomo occhialuto vs. *uomo occhiuto (autoevidente nel senso di "uomo che ha due occhi"; esiste tuttavia il lessema occhiuto col senso di "che è provvisto di tanti occhi" o "che osserva tutto con grande attenzione").
- Nominabilità: questa restrizione fa riferimento al fatto che i concetti espressi dai processi morfologici non possono essere altamente specifici e complessi, ma devono mantenere una certa semplicità.
- Adeguatezza al contesto sociale: la scelta da parte di un parlante di usare certe forme e certi procedimenti morfologici è condizionata dal contesto in cui si esprime. Molti procedimenti sono infatti fortemente connotati in relazione allo status socio-economico del parlante che li sta usando (livello diastratico) o in relazione al rapporto tra gli interlocutori che il loro uso implica (livello diafasico). A queste restrizioni di tipo sociolinguistico sono strettamente collegate anche le restrizioni stilistiche: certi procedimenti sono considerati come propri di un certo stile di parlata o di scrittura. Baayen 1992 nota a questo proposito che il suffisso olandese -erd, usato per coniare nomi di persona peggiorativi da aggettivi (del tipo bangerd "fifone" da bang "spaventato"), pur essendo considerato produttivo, ricorre molto di rado nel corpus Eindhoven, che consiste solo di testi scritti. Evidentemente, questo suffisso è sentito come proprio del registro parlato. Esempi di condizionamento stilistico e sociolinguistico dell’uso di certi procedimenti morfologici si trovano (in particolare per quanto riguarda la lingua italiana) anche nel linguaggio burocratico. Tale varietà è caratterizzata, da un lato, da un registro alto o formale e, dall’altro lato, da un abbondante uso di termini tecnici della stessa area burocratica e di altri linguaggi (amministrativo, giuridico, economico-finanziario ecc.). Uno dei mezzi linguistici che serve alla realizzazione dello stile formale è l’uso di forme nominali (per l’accensione di un conto in valuta estera, l'ammontare del salario, per il rilascio della presa d'atto, comunicazione di avvenuta trascrizione) e di termini astratti, in particolare collettivi (es. clientela anziché clienti, sportelleria anziché sportelli, modalità anziché modo, tipologia anziché tipo): dal punto di vista morfologico, questo conduce ad una notevole frequenza di forme nominali derivate, e dunque ad un uso abbondante dei procedimenti di derivazione nominale. Altri tratti tipici del linguaggio burocratico sono un'alta ricorrenza del participio presente e del gerundio al posto di proposizioni dipendenti esplicite (un attestato comprovante, la circolare avente per oggetto, le disposizioni riguardanti il trattamento; ferma restando la non assoggettabilità, pur comprendendo le motivazioni, risultando iscritto nei registri). Queste forme non sono affatto comuni nell'italiano di uso quotidiano: quello burocratico è dunque chiaramente un contesto in cui certi procedimenti morfologici hanno un'estensione d'uso specifica, diversa rispetto a quella che si potrebbe predire semplicemente in base alla loro produttività. (Per una descrizione del linguaggio burocratico corredata da esempi, cfr. Berruto 1987 e Cortelazzo e Pellegrino 2003.)
- Moda linguistica: certi sviluppi extralinguistici nella comunità dei parlanti rendono più o meno desiderabile l’uso di certi procedimenti morfologici. Un esempio di moda linguistica in italiano è l’uso – molto comune in questo periodo storico – dell’elemento formativo neoclassico -poli, quasi con il valore di suffissoide, per creare nuove formazioni che aggiungono al significato della base il senso di "scandalo politico-affaristico", sulla base del termine tangentopoli: affittopoli, concorsopoli, calciopoli, sanitopoli, vallettopoli. Un esempio tratto dall'inglese è invece l'aggiunta di e- (abbreviazione di electronic) ad una base, per creare composti dove e- mantiene il significato di "elettronico" o fornisce al termine il senso più generale di "oggetto realizzato tramite strumenti informatici": e-mail, e-learning, e-dreams, e-trade, eMedicine (nome di una rivista). In questo caso la dipendenza della vitalità (o dell'estensione d'uso) del procedimento da sviluppi sociali extralinguistici è particolarmente evidente: la diffusione capillare dell'uso dei computer e di internet nei paesi occidentali e il conseguente esplosivo sviluppo di servizi e attività commerciali in rete è il necessario presupposto per la formazione e la popolarità di questo procedimento formativo.
- Atteggiamento consapevole verso i procedimenti morfologici della lingua: i parlanti possono avere delle opinioni consapevoli su quanto sia desiderabile l’uso di un certo procedimento. In genere queste opinioni dipendono dalle connotazioni diafasiche e diastratiche, ma anche diatopiche, dei procedimenti in questione; la presenza di una tradizione normativa molto autorevole può influenzare particolarmente l’opinione dei parlanti. Queste ultime tre restrizioni sociolinguistiche valgono naturalmente non solo per l’uso dei procedimenti morfologici, ma anche per la scelta di varianti fonetiche, di elementi lessicali e di costruzioni sintattiche da parte dei parlanti.
Restrizioni strutturali
All’interno del sistema linguistico, restrizioni sull’applicazione di uno specifico procedimento morfologico si possono incontrare a qualsiasi livello: fonologico, morfologico, sintattico e semantico. Esiste inoltre un fenomeno più ampiamente diffuso, che influenza il dominio di applicazione della maggior parte dei procedimenti morfologici: il cosiddetto blocking.
- Restrizioni fonologiche: ci sono procedimenti morfologici che possono essere applicati soltanto a basi che hanno determinate caratteristiche fonologiche. Un esempio è il prefisso negativo italiano s-, che non può essere premesso a basi che iniziano per vocale (cfr. *sagevole, *silludere, *sonesto).
- Restrizioni morfologiche: ci sono procedimenti che vengono applicati solo a basi con determinate caratteristiche morfologiche. In genere, non si tratta di una restrizione rigida che impedisce l'applicazione del procedimento in mancanza delle condizioni adeguate, ma piuttosto di una tendenza che si manifesta nella quantità di forme coniate. Un caso del genere è stato studiato da Anshen e Aronoff 1981. I due suffissi inglesi -ness e -ity possono essere definiti "rivali", poiché hanno funzioni morfologiche e semantiche molto simili: servono entrambi a formare nomi di qualità astratti a partire da basi aggettivali. Anshen e Aronoff hanno osservato, tramite un esperimento basato sulla decisione lessicale da parte dei parlanti, che questi suffissi tendono a favorire basi con caratteristiche morfologiche diverse: -ness si applica con maggior facilità ad aggettivi terminanti in -ive, dando luogo a nomi in -iveness, mentre -ity favorisce fortemente gli aggettivi terminanti in -ible, dando luogo a nomi in -ibility. Tuttavia i dati dell’esperimento mostrano chiaramente che questa preferenza non è rigida: i parlanti hanno giudicato accettabile anche una parte delle parole in -ivity e in -ibleness (anche se con un numero decisamente minore di forme nel secondo caso).
- Restrizioni sintattiche: l’esempio più semplice è il caso (molto comune) di suffissi che si applicano a basi di una sola categoria sintattica. Come nel caso delle restrizioni morfologiche, anche questa restrizione si realizza piuttosto come una tendenza a carattere probabilistico e non come un limite di tipo deterministico. Ad esempio, i suffissi -tura e -aggio si applicano nella maggior parte dei casi a basi verbali (fornitura, andatura, apertura; riciclaggio, doppiaggio, drenaggio), ma si possono trovare anche con basi nominali: dentatura, finestratura, tralicciatura, sifonaggio, sciacallaggio, zitellaggio.
- Restrizioni semantiche: affinché certi procedimenti morfologici siano applicabili, è necessario che la base abbia determinate caratteristiche semantiche. Si può anche incontrare il caso opposto, in cui certe caratteristiche semantiche della base bloccano un procedimento morfologico. Sono soggetti a restrizioni semantiche alcuni prefissi dell'italiano: ante-, anti- (nel senso di "precedenza spaziale o temporale"), circum-, cis-, intra-, meta- si possono applicare ad aggettivi di relazione, ma non qualificativi; auto-, dis-, in- (come prefisso negativo), semi-, al contrario, si possono applicare solo ad aggettivi qualificativi.
- Blocking: il fenomeno può essere suddiviso in due varietà: token blocking e type blocking (cfr. Rainer 1988). Il token blocking consiste nell’inibizione dell’accettabilità di una forma generata da un procedimento morfologico produttivo a causa della presenza di un’altra forma memorizzata nel lessico mentale; quest’ultima può essere una forma idiosincratica, ma anche una forma generata produttivamente. Esempi: ladro (forma idiosincratica) blocca la formazione di *rubatore; avidità (forma generata tramite il suffisso limitatamente produttivo -ità) tende a bloccare la formazione di *avidezza, perlomeno nella competenza odierna dei parlanti italiani. Il type blocking è invece l’inibizione non di una sola forma, ma di un procedimento morfologico nel suo complesso a causa dell'esistenza di un altro procedimento il cui dominio di applicazione si sovrappone parzialmente o totalmente con l’altro. Un caso di type blocking trattato da Rainer è il seguente: per formare in italiano nomi deaggettivali a partire da basi terminanti in -ano, -ario, -eo, si applica alla base il suffisso -ità/-età. Tuttavia esiste una serie di aggettivi che danno luogo, invece, a nomi in -ismo/-esimo: filisteo dà filisteismo, manicheo dà manicheismo, reazionario dà reazionarismo. Tutti questi nomi derivati hanno una caratteristica semantica in comune: fanno riferimento a sistemi di credenze. In questo caso, dunque, il suffisso -ismo blocca l'applicazione di -ità in una parte ristretta del suo dominio, cioè gli aggettivi in -ano, -ario, -eo che si riferiscono a sistemi di credenze. Il fenomeno di blocking è reso possibile dal fatto che i domini dei due suffissi si sovrappongono parzialmente.
Sinonimi
Talvolta, al posto di produttività viene impiegato, in senso metaforico, il termine vitalità.
Origine
Il termine "produttivo" (produktiv) si trova per la prima volta nella Grammatik der romanischen Sprachen [Grammatica delle lingue romanze] di F. Dietz (1838). Tuttavia, il concetto di produttività è già presente, per lo meno implicitamente, in lavori molto più antichi: la tradizione grammaticale sanscrita lo presuppone; il concetto viene espresso, con il termine "certo" (certayne), nella grammatica di Palsgrave Lesclaircissement de la langue francoyse (1530).
Vedi anche
- Formazione delle parole
- Lessico mentale
- Blocking
Riferimenti bibliografici
- Anshen, F. e Aronoff, M. 1981. “Morphological productivity and phonological transparency”, Canadian Journal of Linguistics 26
- Aronoff, M. 1983. “Potential words, actual words, productivity and frequency”, in Proceedings of the XIII International Congress of Linguists, a cura di S. Hattori e K. Inoue, Tokyo, Permanent International Commitee on Linguistics
- Baayen, R. H. 1992. “Quantitative aspects of morphological productivity”, Yearbook of Morphology 1991, G. Booij e J. van Marle (edd.), Dordrecht, Kluwer Academic Publishers
- Baayen, R. H. 2003. “Probabilistic approaches to morphology”, in Probabilistic linguistics, a cura di R. Bod et al., Cambridge (MA), MIT Press
- Bauer, L. 2001. Morphological Productivity, Cambridge, Cambridge University Press
- Berruto, G. 1987. Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica
- Burani, C. e Caramazza, A. 1987. “Representation and processing of derived words”, Language and cognitive processes 2
- Cortelazzo, M. e Pellegrino, F. 2003. Guida alla scrittura istituzionale, Roma-Bari, Laterza
- Dressler, W. 2003. "Degrees of grammatical productivity in inflectional morphology", Italian Journal of Linguistics 15
- Dressler, W. e Ladányi, M. 2000. “Productivity in word formation (WF): a morphological approach”, Acta Linguistica Hungarica 47
- Gaeta, L. e Ricca, D. 2003. “Frequency and productivity in Italian derivation: a comparison between corpus-based and lexicographical data”, Italian Journal of Linguistics 15
- Grossmann, M. e Rainer, F. (a cura di). 2004. La formazione delle parole in italiano, Tübingen, Niemeyer
- Hay, J. 2001. “Lexical frequency in morphology: is everything relative?”, Linguistics 39
- Hay, J. e Baayen, H. 2003. “Phonotactics, parsing and productivity”, Italian Journal of Linguistics 15
- Plag, I. 2003. Word-Formation in English, Cambridge, Cambridge University Press
- Rainer, F. 1988. “Towards a theory of blocking: the case of Italian and German quality nouns”, Yearbook of Morphology 1988, G. Booij e J. van Marle (edd.), Dordrecht, Foris Publications
Altre lingue
- Inglese: productivity
- Francese: productivité
- Tedesco: Produktivität