Pertinenza
La pertinenza (è usato anche il termine “rilevanza”, che è un calco dall’inglese “relevance”; ma in italiano le due nozioni sono differenti) è un principio pragmatico che regola lo scambio comunicativo, connettendo il momento più propriamente linguistico a una serie di fattori contestuali e cognitivi, sia al livello della produzione sia al livello della ricezione.
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Origine della nozione
Il termine “pertinenza” viene introdotto per la prima volta in accezione tecnica nella pragmatica contemporanea da Paul Grice, il quale conia una “massima della pertinenza”, il cui contenuto è, semplicemente, “Sii pertinente”. Secondo Grice si tratta di un principio la cui violazione indicherebbe che ci si trova in presenza di un’asserzione che non può essere interpretata letteralmente.
La nozione come è stata introdotta da Grice ha però il difetto di non essere utile per spiegare come si potrebbe passare da un’interpretazione letterale (non pertinente) a una non letterale (pertinente). Inoltre la formulazione della massima è ambigua. Infatti si specifica che la massima può essere violata, ma che la violazione indica che esiste un’interpretazione secondo cui l’asserzione è pertinente. Ma ciò equivale a sostenere che la massima non può essere violata. In effetti ciò che non può essere mai violato è il Principio della Cooperazione, che si esplicita appunto nelle varie massime, tra cui quella della pertinenza. In questo senso, dunque, la formulazione di Grice appare non del tutto distante da elaborazioni successive.
Grice dichiara comunque che sono rari i casi in cui la massima è davvero violata. L’esempio che lui fornisce è il seguente: a una festa elegante un invitato dice di qualcuno che “è una vecchia ciabatta”. Dopo un po’ di sconcerto un altro invitato dice: “Il tempo è stato proprio bello quest’estate, non trova?”. L’osservazione non è pertinente, e questo implica l’opinione secondo cui la prima osservazione non va commentata e che, forse, si è trattato di una gaffe.
“Relevance”
Partendo dalle considerazioni di Grice, Sperber e Wilson fanno della pertinenza un principio generale dei processi cognitivi umani, e ad esso affidano un ruolo ancor più importante per la regolazione dello scambio comunicativo.
Secondo Sperber e Wilson 1986, la mente umana non può procedere come comunemente si pensa per decisioni progressive. Non può cioè imboccare ad ogni elaborazione di informazioni (siano esse informazioni linguistiche, o visive, o ricordi o quant’altro) una singola strada di default, per poi imboccarne un’altra qualora la prima si riveli inadeguata e così via. Oltre a motivazioni sperimentali (ad esempio da indagini sul funzionamento della memoria) questa idea è messa fuori gioco da almeno altre due spiegazioni. La prima è di ordine pratico. Agendo in questo modo la mente umana impiegherebbe senza dubbio troppo tempo per elaborare certe informazioni, e per di più il tempo impiegato aumenterebbe sensibilmente in presenza di usi non comuni del linguaggio, come in presenza di metafore reiterate: il che nella maggior parte dei casi non avviene. La seconda è di ordine teorico: è dubbio infatti cosa sia ciò che i fautori di questa spiegazione chiamano “inadeguatezza” di una strada, e soprattutto di come questa “inadeguatezza” venga riconosciuta dalla mente umana. Soprattutto di quando, cioè di quanto tempo occorra perché una strada venga classificata come “inadeguata”.
Strade parallele
Per Sperber e Wilson la mente umana procede invece per strade parallele. Essa intraprende più percorsi contemporaneamente e come in una gara rimane ad aspettare quale delle varie strade dia per prima dei frutti. L’unico principio comune alle varie strade è appunto quello della pertinenza. Esso ha un doppio ruolo: di inizio e di fine del percorso.
Di inizio, perché la mente umana per elaborare un’informazione parte dal presupposto che qualunque informazione le capiti a tiro abbia alla fine una qualche pertinenza per i suoi scopi (qualunque essi siano). Compito dell’operazione di elaborazione sarà appunto di stabilire in che consista questa pertinenza. In accordo con Sperber e Wilson si tratta sempre di modificazione in qualche senso delle informazioni in proprio possesso. Queste modificazioni si possono descrivere come aumento o diminuzione del peso di un’informazione (cioè della probabilità associata ad essa). Informazioni di cui non si è in possesso avranno un peso per il sistema cognitivo pari a zero, suscettibile però di essere aumentato.
Di fine, perché una volta che una strada è arrivata ad una interpretazione, essa è proprio quella dotata della pertinenza che la mente ricercava. L'utente linguistico dovrà dunque confrontare questa informazione innanzitutto con le altre informazioni in proprio possesso, e poi con il tempo impiegato fin qui per il processo, per stabilire se effettivamente l’informazione è pertinente o meno, e se quindi dovrà essere memorizzata o meno.
Meccanismi della pertinenza
La pertinenza dunque sarà la valutazione delle variazioni dei pesi associati alle informazioni quando nel quadro sono inseriti i dati informativi del momento, con le loro implicazioni e con le inferenze che se ne possono trarre. Se questi dati e queste inferenze non mutano il peso di nessuna informazione, o se il tempo perché il mutamento agisca è troppo lungo, saranno giudicati non pertinenti. Il riferimento al tempo di elaborazione è importante, perché dà la misura della dipendenza dal contesto. Ciò che è presente alla mente di qualcuno in un’occasione può non esserlo in un’altra: le informazioni, i pensieri, le immagini e quant’altro stipato in memoria viene attivato da particolari processi che intuitivamente possiamo definire non eguali per ognuno. Ciò che si vede e che si sente, ciò che indiscutibilmente è presente ai sensi di ogni individuo, non necessariamente è presente alla mente di ogni individuo. Sappiamo bene che in virtù di meccanismi ancora in larga parte ignoti la massa delle informazioni sensoriali viene scremata, e filtra solo una minima parte; ed anche in questo caso lo stesso stimolo può assumere valenze diverse a seconda della persona che lo percepisce. Tutti questi meccanismi (i processi che attivano le informazioni stipate in memoria rendendole utilizzabili, i meccanismi di filtro degli stimoli, e quelli di attribuzione di valenza a questi stessi stimoli) non solo variano da individuo a individuo (come testimonia la stessa nostra esperienza), ma anche per lo stesso individuo con il passare del tempo: per nostra esperienza, e per evidenze scientifiche, si creano ponti e connessioni tra le informazioni che rendono più agevole l’accesso a un punto se si è in una determinata situazione, da cui prima (in assenza di connessione) non si sarebbe mai potuti proseguire.
La pertinenza come principio comunicativo
Questo principio cognitivo di ordine generale, applicato alla comunicazione, dà luogo a ciò che Sperber e Wilson chiamano la massima della pertinenza, un principio di carattere generale che non potrà mai essere contraddetto da nessun caso particolare, un postulato della mente umana. Esso può avere due formulazioni, a seconda ci si ponga nell’ottica del parlante o dell’ascoltatore. Del parlante: Ciò che dico è rilevante per chi mi ascolta. Per l’ascoltatore: Ciò che mi viene detto è detto con il presupposto di essere rilevante per me. Il principio nella sua formulazione dal punto di vista dell’ascoltatore fa sì che, se alla fine del processo di computazione dovesse risultare che l’informazione non è in effetti pertinente, si chiederà conto al parlante di una tale violazione, e il parlante dovrà spiegare in che modo egli voleva essere pertinente.
È importante comprendere che la cosa importante, nella definizione di Sperber e Wilson, non sono tanto le inferenze che si possono trarre da un’informazione, ma il fatto che queste inferenze vadano a modificare la conoscenza dell’ascoltatore. Che 31 per 3 faccia 93 non è pertinente nella maggior parte delle conversazioni perché nessuna delle inferenze che si possono trarre dal fatto che questo fatto sia menzionato vanno normalmente a modificare quel bagaglio di conoscenze. Ma ci possono essere casi in cui ciò avviene, perché la pertinenza è un criterio che presenta una forte dipendenza dal contesto. Va inoltre sottolineato che non è tanto l’affermazione che si fa a dover rispondere a criteri di pertinenza, quanto il fatto che si faccia quell’affermazione in quel determinato contesto. Non si traggono inferenze solo da ciò che una persona dice, ma anche dal fatto che è proprio quella persona e non un’altra a dirlo, che essa è giudicata più o meno attendibile (quindi con una maggiore o minore capacità di modificare il peso delle informazioni e conoscenze già acquisite), che lo dice ora e non in un altro momento, ecc.
Nel discutere l’esempio di Grice visto più sopra, un approccio come quello delineato procederebbe in maniera diversa. Poiché ad essere pertinente non è tanto l’osservazione in sé, quanto il contesto comunicativo generale, l’invitato che rifiuta di dare seguito alla prima osservazione (“La signora tal dei tali è una vecchia ciabatta”) non viola affatto il principio generale della comunicazione. È proprio grazie a quel principio, infatti, che la sua osservazione sul tempo può essere interpretata come pertinente rispetto alla situazione, indicando il rifiuto di commentare ciò che si giudica un’osservazione infelice.
La pertinenza e l'origine della facoltà del linguaggio
Proprio per la sua centralità, sembra lecito attribuire al principio di pertinenza un ruolo centrale tra i meccanismi che hanno portato gli esseri umani a dotarsi di una facoltà di linguaggio. Tale facoltà è caratterizzata, tra l'altro, dalla possibilità di adempiere a numerose funzioni: tra queste la funzione referenziale è certamente la più appariscente e quella che ha colpito l'interesse di molti studiosi e filosofi, ma in nessun modo può essere considerata l'unica. Se si considerano le ragioni sociali dell'evoluzione della facoltà del linguaggio, apparirà chiaro come ciò che conta non è tanto parlare del mondo esterno (funzione referenziale) quanto essere pertinenti.
Le ragioni sociali del linguaggio
L’origine del linguaggio, e del suo uso referenziale, si può far risalire secondo alcuni autori (per esempio Dessalles 1998) a una funzione sociale. Gli ominidi, come le antropomorfe cui sono imparentati, mantenevano la coesione sociale mediante la cura personale. Ma con l’evoluzione il gruppo sociale si ingrandì, fino a divenire tanto ampio da non permettere più un utilizzo proficuo dello spidocchiamento come meccanismo per il mantenimento delle alleanze. Spidocchiare qualcuno è infatti un’attività che richiede un notevole impiego di tempo, sottratto ad attività più proficue da un punto di vista strettamente individuale, come la ricerca del cibo. La spinta evolutiva spingeva dunque nella direzione di un nuovo mezzo di socializzazione. Invece del proprio tempo, certamente prezioso, ma disponibile solo in maniera limitata rispetto al numero di compagni con cui intrattenere relazioni sociali, le proprie informazioni riguardo al mondo esterno (per es. sulla reperibilità di fonti di cibo) erano altrettanto pregiate sul mercato sociale dei favori, e tenevano libere le mani per poter costruire strumenti, raccogliere frutti, e così via.
Il problema dell'altruismo
Mentre lo spidocchiamento è credibile come gesto di buona volontà su cui basare un'alleanza sociale (perché costituisce un notevole impiego di tempo ed energie), non si può dire altrettanto del linguaggio e dello scambio di informazioni. Una certa coesione sociale è non solo favorita dalla presenza della facoltà di linguaggio, ma anche presupposta. Si è ipotizzato che il linguaggio abbia la sua origine nella modalità manuale o più generalmente corporea (che continuerebbe a richiedere tempo ed energie, ma avrebbe il vantaggio di rivolgersi a più di un altro compagno), e che poi questa modalità abbia originato da un lato la ritualità (che crea una coesione sociale di base) e dall'altro il linguaggio (che la rafforza caso per caso).
Possibili interpretazioni della proliferazione di funzioni linguistiche
La funzione referenziale (di cui il tipo di informazioni sul mondo esterno citate sopra costituisce un esempio) è solo una delle molteplici che il nostro linguaggio può ricoprire. Ci sono almeno due possibili interpretazioni di questa proliferazione di funzioni. La prima è che sia sempre stato così: una spiegazione che non appare molto convincente, se non altro perché deve ancora spiegare da dove provengano le funzioni non referenziali.
La seconda spiegazione è che, in fin dei conti, dare agli altri informazioni del tutto nuove di cui si era in possesso poteva risultare controproducente in almeno due sensi. Da una parte poteva infatti essere davvero troppo svantaggioso privarsi di informazioni esclusive al solo scopo di una buona alleanza, dall’altra poteva risultare troppo difficile controllare l’attendibilità di informazioni che, per definizione, erano conosciute solo all’informatore stesso. Certo, la logica avrebbe potuto contribuire, ma ci sono menzogne in cui la logica non può indagare.
Origine del principio di pertinenza
Come si è visto lo scambio di informazioni, cioè la funzione referenziale, era già al servizio di una funzione più importante: il linguaggio sostituiva infatti lo spidocchiamento come mezzo per far capire all’altro che di lui ci si interessava. Ma questo interessamento, dapprima mostrato attraverso il riferimento a dati sul mondo esterno che si giudicavano di un certo interesse per l’ascoltatore, poteva ben essere mostrato attraverso il puro riferimento a fatti che costituivano uno sfondo di pertinenza per l’ascoltatore, o per entrambi. Sarebbe questa, cioè, la ragione per cui si iniziò ad applicare un principio di pertinenza nella pragmatica del linguaggio moderno.
Fornire informazioni nuove a un ascoltatore fino a quel momento ignaro delle notizie che gli vengono riferite è il modo più semplice e immediato di essere pertinenti. È lecito supporre, dunque, che sia anche stato il primo passo da cui si è partiti. Poi il quadro si è via via complicato, con il riferimento alle informazioni già registrate dall’ascoltatore, al suo punto di vista sul mondo, ecc.
Vedi anche
Riferimenti
- DESSALLES, J.-L. 1998, Altruism, Status and the Origin of Relevance, in Hurford et al. (curr.), Approaches to the Evolution of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1998
- DUNBAR, R. 1998, Theory of Mind and the Evolution of Language, in Hurford et al. (curr.), Approaches to the Evolution of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1998
- KNIGHT, C. 1998, Ritual/Speech Coevolution: A Solution to the Problem of Deception, in Hurford et al. (curr.), Approaches to the Evolution of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1998
- POWER, C. 1998, Old Wives’ Tales: The Gossip Hypothesis and the Reliability of Cheap Signals, in Hurford et al. (curr.), Approaches to the Evolution of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1998
- SPERBER, D. – WILSON, D. 1986, Relevance: Communication and cognition, Blackwell, Oxford
- WORDEN, R. 1998, The Evolution of Language from Social Intelligence, in Hurford et al. (curr.), Approaches to the Evolution of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1998